Nei Caraibi, dove l’insolito è di casa, ogni storia diventa unica e sorprendente. E’ il caso della leggenda di Robin Hood. Non parliamo dell’epopea letteraria nella foresta di Sherwood ma del club calcistico fondato nel febbraio 1945 a Paramaribo capitale del Suriname (l’ex Guyana Olandese). Terra in cui affondano le radici di alcuni dei maggiori campioni del calcio olandese degli ultimi decenni: Gullit, Rijkaard, Seedorf, Davids e Kluivert, sono i primi che vengono alla memoria.
Se l’origine del nome è ancora incerta, di certo la parabola dello Sport Vereniging Robinhood possiede tutti i caratteri di una leggenda sportiva.
Nato con il nobile intento di offrire ai poveri ragazzi di strada di Paramaribo l’opportunità di partecipare ad iniziative della comunità, il club viene presto iscritto al terzo livello della federazione calcistica, quello dove i giocatori possono giocare scalzi (da alcune fonti si ipotizza che per questo motivo viene negata l’iscrizione al secondo livello).
Le umili condizioni del club fruttano molta simpatia al Robinhood nei popolari quartieri del centro della capitale e il seguito cresce di pari passo con i successi: dopo soli quattro anni di attività il club raggiunge la Hoofdklasse, la serie maggiore, che non lascerà più fino alla stagione 2013-14.
E se il primo dei 23 campionati vinti arriva nel 1953, la sua leggenda più che sui titoli conquistati in patria (al record di campionati vinti fanno da corona le sei coppe del Suriname e altrettante Supercoppe nazionali, primato assoluto anche qui) si fonda soprattutto sulla sfortunata serie di coppe continentali perse tra gli anni ’70 e ’80, gli anni d’oro del club.
Per ben cinque volte (su 13 partecipazioni) i rossoverdi capitolini raggiungono la finale del maggior trofeo continentale e tornano sempre a casa con le pive nel sacco, record assoluto nel panorama del calcio mondiale.
Nel 1972, quando ancora il paese era Guyana Olandese, i rossoverdi cadono in finale contro gli honduregni dell’Olimpia (0-1,0-0); nel 1976 cedono ai salvadoregni del Deportivo Aguila (1-5,2-3) e l’anno dopo ai messicani dell’America (0-1,1-1).
Anche nel 1982 e 1983 il Robinhood riesce ad arrivare in finale e perdere. Stavolta i giustizieri sono messicani: prima l’Unam (0-0,2-3), poi l’Atlante (1-1, 0-5). Con il crollo nella semifinale della Concacaf Champions Cup 1992, quando vengono travolti in gara unica 7-0 dall’America di Hugo Sanchez, si spengono sogni di gloria e velleità continentali.
Una sequenza di sconfitte da record che chiude il conto con la Liga de Campeones de la Concacaf, cui va aggiunta la doppia finale della Coppa dei Campioni Caraibici (che garantisce ai vincitori la qualificazione alla Concacaf Champions League), persa nel 2005 contro i giamaicani del Portmore United (5-2 il risultato complessivo). Ce n’è abbastanza per parlare di una vera e propria maledizione fuori dai confini nazionali.
Le statistiche non devono trarre in inganno. Se confrontiamo i risultati odierni della maggior competizione calcistica per club dell’America del Nord con quelli del passato possiamo facilmente vedere come il livello sia aumentato in maniera esponenziale. Da quando i criteri di partecipazione si sono fatti più definiti e sono drasticamente diminuite le defezioni e i ritiri che avevano caratterizzato la prima parte della manifestazione, nessuna squadra caraibica ha più conseguito risultati di rilevo né è andata vicina a iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro.
La parabola discendente è proseguita anche in patria, dove il Robinhood ha avuto un calo costante che è culminato con la retrocessione del 2013-14, salvo poi riscattarsi con il pronto ritorno nella massima serie la stagione successiva.
Se il presente è fatto di alti e bassi, è il passato glorioso a fare del Robinhood una squadra speciale: testimonial calcistico di uno dei paesi forse più sconosciuti del pianeta, unico club del Suriname ad aver compiuto due trasferte nella ex madrepatria, nel 1976 e dieci anni più tardi, dove affronta tra gli altri l’Ajax e il Feyenoord. Epoca d’oro alla quale resterà sempre associato il sogno di alzare al cielo il massimo trofeo continentale. Quel che più brucia ai rossoverdi, che hanno come motto un significativo “no lucha, no corona” è che quell’impresa è invece riuscita per ben due volte agli storici arcirivali cittadini dell’Sv Transvaal, capaci di raggiungere la finale della Coppa dei Campioni Concacaf per ben sei volte e di ottenere nel 1973 e nel 1981 quel successo sempre sfuggito ai connazionali.
Se negli anni Settanta e Ottanta Robinhood e Transvaal si giocavano la supremazia continentale, questa storica rivalità è ormai declassata a livello nazionale, dove peraltro, da una decina d’anni, non risulta neanche più decisiva per il titolo.
Riuscirà l’“allegra brigata” in salsa caraibica a tornare ai fasti di un tempo, per entrare definitivamente nella leggenda, e conquistare quell’alloro continentale, vera e propria chimera?
Massimo Alemanno