Il calcio nel mondo arabo – i 22 Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa – non è mai solo calcio. E da nessuna parte è più evidente che nelle città del Cairo e Tunisi, dove i tifosi hanno giocato un ruolo chiave nella caduta dei governi. Allo stesso modo, è ugualmente evidente, che le pessime prestazioni di molte nazionali di quell’area sono determinate anche dalle costanti limitazioni e interferenze dei governi locali, che cercano di legare il proprio prestigio a quello delle rappresentative nazionali di calcio.
In quest’area nulla oltre al calcio evoca la passione profonda a lungo associata solo all’Islam. Non a caso il calcio – sino all’esplosione nello scorso dicembre delle proteste anti-governative che hanno investito l’Africa nelle regioni comprese tra il Golfo e la costa atlantica – era l’unica istituzione che rivaleggiasse con l’Islam nella creazione di spazi pubblici alternativi dove sfogare rabbia e frustrazione represse.
Se la moschea era un campo di combattimento per miliziani e islamici, il terreno di gioco era il campo di battaglia dove sopprimere espressioni di sentimento anti-governativo e distogliere la pubblica attenzione dai problemi politici, economici e sociali.
L’importanza del calcio è emersa a Tunisi e in piazza Tahrir al Cairo, dove ultras in assetto da guerriglia urbana – anarchici impegnati che si oppongono a ogni tipo di sistema governativo gerarchico – erano in prima fila negli scontri con le forze dell’ordine e i sostenitori del governo. I loro volti erano coperti, in modo che la polizia, che li aveva avvisati telefonicamente di tenersi lontani da piazza Tahrir, non li riconoscesse, perché già noti per i loro scontri settimanali negli stadio del Cairo. Gli ultrà hanno aiutato i protestanti a superare la barriera della paura che in passato gli aveva impedito di sfidare il regime.
“Noi eravamo in prima linea. Quando la polizia attaccava noi incoraggiavamo la gente. Dicevamo di non scappare o di non aver paura. La gente ha preso coraggio e si è unita a noi: loro sanno che noi comprendiamo le ingiustizie e apprezzano che noi affrontiamo il diavolo”, dice Muhamed Hassan, ventenne studente di informatica dai toni garbati, aspirante fotografo e leader del gruppo ultrà Cavalieri bianchi, che appartiene all’altamente politicizzato, militante e violento, tifo organizzato del prestigioso club del Cairo El Zamalek.
In marcia dalla periferia del Cairo, dal sobborgo di Shubra, Muhamed, un tipo minuto con barbetta curata di tre giorni, ha guidato una folla che si è ingrossata sino ad arrivare a diecimila persone; hanno superato sette blocchi di sicurezza, arrivando a piazza Tahrir il 25 gennaio, il primo giorno delle proteste.
Era il giorno che lui e i suoi compagni stavano preparando da quattro anni, perfezionando le loro abilità negli scontri con la polizia, largamente vista come fedele al presidente deposto Hosni Mubarak, che aveva tentato di impedirgli di portare razzi, fuochi d’artificio, fumogeni e striscioni negli stadi, durante le partite, e con i rivali di altre squadre.
“Abbiamo lottato per i nostri diritti nello stadio per quattro anni. Sono loro ad averci preparato a questo giorno. Abbiamo detto alla nostra gente che questa sarebbe stata la nostra cartina di tornasole. Il fallimento non era un’opzione possibile” dice Ahmad Fondu, un altro dei capi dei Cavalieri bianchi.
Un gruppo dei Cavalieri bianchi, che comprende Muhamed, aveva cercato di superare un blocco di polizia per raggiungere il palazzo del Parlamento. “Quando vedo le forze dell’ordine divento pazzo. Ti ammazzerò o mi ammazzerai. Gli ultrà mi hanno tolto ogni paura. Ho imparato il significato della fratellanza e ho preso il coraggio dello stadio”.
Mostra una cicatrice sul lato sinistro della sua fronte, provocata da un sasso lanciato dalla polizia che cercava di impedire il primo assalto al Parlamento. Col sangue che colava sul suo volto, sentiva crollare dentro di sé le mura della paura mentre alle sue spalle aumentava l’urlo della folla: “Loro sono nostri fratelli. Noi possiamo farlo”.
Se prima delle proteste il campo da calcio era assieme alla moschea il primo terreno di battaglia per il futuro della regione, ora non lo è più, proprio in conseguenza delle proteste. La Siria recentemente è stata l’ultima nazione araba a bandire le sfide di campionato, nel tentativo di impedire che il campo da gioco diventasse un punto di aggregazione dell’opposizione. Egitto e Tunisia solo a malincuore hanno accettato la ripresa dei campionati in aprile, sebbene fosse passato già parecchio tempo da quando i signori di Egitto e Tunisia Mubarak e Zine Abedine Ben Ali sono stati deposti.
Le autorità temono che il tifo organizzato cerchi di sfruttare il prestigio ottenuto durante le proteste per trasformarsi in gruppi di pressione politica, con l’obiettivo di assicurare che i loro Paesi evolvano in democrazie a pieno titolo.
Timori rafforzati recentemente, quando i membri dei Cavalieri bianchi hanno esibito a tutti il potenziale politico, e a volte violento, del calcio, invadendo il terreno di gioco durante la sfida cruciale della Champions League africana tra la loro squadra e i tunisini del Club Africain. I tifosi hanno distrutto i pali delle porte e tutto quel che incontravano all’interno dello stadio Internazionale del Cairo, attaccando arbitro e giocatori.
I capi ultrà dei Cavalieri bianchi, che avevano messo in piedi una bella coreografia a sostegno dello Zamalek, con petardi, fumogeni, fuochi d’artificio, striscioni di 70 metri, dicono che i disordini sono stati il riflesso della crescente influenza all’interno del gruppo di giovani hooligans, spesso disoccupati e scarsamente istruiti, per i quali lo Zamalek e gli ultras rappresentano la famiglia e che, nonostante l’esplosione di libertà nel loro Paese, sentono di non aver nulla da perdere in assenza di prospettive immediate di miglioramento economico futuro.
L’incidente ha chiarito che se i tifosi di calcio vogliono accrescere il proprio peso politico, devono separare il grano dalla gluma; devono ripristinare la disciplina e l’unità d’intenti spezzate dall’assenza di polizia nello stadio per la prima volta in tanti anni. Di fatto i tifosi sono andati ad infilarsi in una trappola dalla quale solo la polizia poteva emergere come vincitrice: ha evitato uno scontro post-rivoluzione che avrebbe danneggiato ulteriormente la sua immagine, e che ha invece macchiato il prestigio dei tifosi e dimostrata l’impossibilità di mantenere ordine e legalità in sua assenza. Tutto è accaduto il giorno dopo che i capi ultrà avevano annunciato che avrebbero utilizzato la propria credibilità per spingere le autorità militari egiziane a sradicare la corruzione, rimuovere dal potere tutti gli ufficiali nel governo e nelle organizzazioni pubbliche associati a Mubarak e ad adottare una politica estera pro-Palestina.
“Inizieremo ad attaccarli” aveva detto Muhamed alla vigilia del match interrotto. E Hassan diceva: “Canteremo contro Mubarak. Vogliamo che lui e i suoi amici corrotti vengano messi sotto processo. Siamo concentrati sull’Egitto adesso, non solo sullo sport”.
Ciò nonostante il calcio rappresenta una momento di divisione nella battaglia per il futuro della regione. Il sostegno di Muhamed per lo Zamalek contrasta in modo netto col suo disgusto per la nazionale egiziana, il cui commissario tecnico sosteneva apertamente Mubarak. L’ex presidente si presentava spesso agli allenamenti e si assicurava che I suoi figli fossero presenti agli incontri quando lui non poteva assistere. I Mubarak nel 2009 alimentarono il nazionalismo e le già tradizionalmente tese relazioni calcistiche con l’Algeria peggiorarono, dopo che l’Algeria sconfisse l’Egitto in uno spareggio per decidere quale delle due squadre avrebbe partecipato al Mondiale 2010 in Sud Africa.
Muhamed spiega: “Mubarak ci ha fatto sentire che sostenere la nazionale era come sostenere lui. La nazionale era un diversivo per farci dimenticare le ingiustizie. Non perdonerò mai la squadra per aver sostenuto Mubarak”.
In quest’area fanatica di calcio, molti governi sperano di evitare una ripetizione degli eventi del Nord Africa, cercando di catturare quella passione profonda, rinnovando lo sforzo di indirizzare le attenzioni sul miglioramento delle prestazioni della nazionale.
Eppure, nel tentativo di produrre risultati immediati, i giochetti politici finiscono col minare la strategia di lungo termine; è proprio questo approccio che, lo scorso gennaio, ha fatto sì che nessuna nazionale del Medio Oriente raggiungesse le semifinali della Coppa d’Asia in Qatar, pur avendo la metà delle squadre in tabellone.
Col risultato che il Qatar esonerasse il suo carismatico ct francese; l’Arabia Saudita licenziasse due commissari tecnici in due settimane, per un totale di 28 negli ultimi 20 anni; lo sloveno Srecko Katanec, selezionatore della nazionale degli Emirati Arabi Uniti, che ha deluso parecchio a Doha, sarà molto probabilmente di nuovo sul mercato a giugno, termine per il rinnovo del contratto; la scorsa settimana l’Iran ha assunto il tecnico portoghese Carlos Queiroz, nella speranza che riesca a far qualificare la nazionale della Repubblica islamica alla fase finale della Coppa del Mondo 2014 in Brasile.
“Se il gap calcistico tra est e ovest, nord e sud dell’Asia, deve essere annullato, è importante che qui le federazioni abbandonino le loro politiche mordi e fuggi e adottino un approccio più paziente, che guardi al futuro e consideri gli obiettivi a lungo termine di ogni nazione”, spiega il giornalista calcistico Duane Fonseca, in un commento su Sport 360, quotidiano di Abu Dhabi.
L’Arab News di Gedda sottolineava in un editoriale che l’Arabia Saudita deve ancora investire risorse per lo sviluppo del calcio giovanile o per la creazione di una “academy” per I giocatori di maggior talento. La prima accademia sportiva del regno è stata aperta lo scorso febbraio dal Real Madrid, uno dei vari top team europei arrivati nella regione per aprire scuole calcio che produrranno soldi e opportunità di scoprire nuovi talenti. L’apertura delle scuole permette alle autorità di apparire come capaci di rispondere alle critiche in tempi ragionevoli.
L’approccio mediorientale, basato sui risultati a breve scadenza, mina le possibilità delle squadre nazionali di sviluppare con successo un proprio stile di gioco che funzioni, finendo per produrre invece un livello di pressione e incertezza tra tecnici e giocatori che è garanzia di fallimento.
“Il calcio è crescita, tu raccogli quel che semini e spesso la pazienza la chiave”, dice Duane Fonseca.
In verità, il calcio nel Medio Oriente e nel Nord Africa non è mai solo calcio.
James. M. Dorsey
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Traduzione LECHAMPIONS.it
Articolo originale:
http://english.alarabiya.net/articles/2011/04/10/144914.html
http://mideastsoccer.blogspot.com/2011/04/soccer-emerges-as-political-force-in.html
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